Sembra fantascienza. Si tratta di un computer collegato ad un elettrodo impiantato nel cervello umano, questo sarebbe in grado di inviare stimoli elettrici calibrati per migliorare le performance di memorizzazione, sia a breve che a lungo termine. Un’équipe di scienziati del Wake Forest Baptist Medical Center, coordinata da Robert Hampson, è riuscita a mettere a punto un’interfaccia cervello-macchina, testata su soggetti umani e che sembra aver dato risultati estremamente promettenti in termini di potenziamento delle abilità di memoria. Lo studio con tutti i dettagli dell’esperimento è stato pubblicato sulle pagine del Journal of Neural Engineering.
Memoria e ippocampo
Cominciamo dalla fisiologia. Come già accennato, gli autori del lavoro si sono concentrati sull’ippocampo, un’area del cervello situata nel lobo temporale che gioca notoriamente un ruolo fondamentale nella formazione e fissazione dei ricordi e nella trasformazione della memoria a breve termine in memoria a lungo termine.
Tanto che nei soggetti il cui ippocampo è compromesso (per esempio chi soffre di Alzheimer, malattia che colpisce per primo proprio l’ippocampo) si osservano inevitabilmente diversi deficit di memoria più o meno gravi, tra cui amnesie ricorrenti, cioè impossibilità di fissare e mantenere nuovi ricordi.
L’esperimento
A causa della sua collocazione, l’ippocampo è una zona del cervello che si può stimolare solo con elettrodi impiantati in loco (e non attraverso metodi meno invasivi come la stimolazione transcranica: ci torneremo tra poco).
Gli otto partecipanti all’esperimento – definito proof of concept dagli stessi autori del lavoro, ossia una sorta di banco di prova per testare la fattibilità ed il buon funzionamento dell’architettura – erano pazienti epilettici, nel cui cervello erano già stati impiantati, per ragioni terapeutiche connesse alla malattia di cui soffrivano, una serie di elettrodi che funzionano come una sorta di pacemaker cerebrale.
Anzitutto, i volontari si sono sottoposti a un test di memoria visiva, in cui veniva loro richiesto di guardare immagini astratte, provando a memorizzarle per poi riconoscere in mezzo a figure molto simili. Questo test è servito agli scienziati per due ragioni: valutare le performance di memoria in assenza di stimolazioni e, soprattutto, registrare i pattern di attivazione dei neuroni durante il processo di memorizzazione. Questi pattern sono stati poi analizzati in dettaglio per ricavarne un modello predittivo in grado di stabilire in anticipo, per ciascun soggetto, quali e quanti neuroni si sarebbero accesi (e con quale intensità) durante la formazione delle memorie. Si tratta del cosiddetto processo di decodifica del segnale cerebrale.
La seconda fase, quella più avvincente. Gli elettrodi sono stati collegati a un computer che, mentre i volontari si sottoponevano nuovamente al test di memoria, innescava una stimolazione elettrica nell’ippocampo che riproducesse il più fedelmente possibile il pattern predetto dai modelli. L’idea alla base è che tale stimolazione possa costituire una sorta di rinforzo al processo di memorizzazione, rendendolo ancora più efficiente. Dal punto di vista tecnico, si tratta del cosiddetto approccio closed-loop, ovvero a circuito chiuso: i segnali sono raccolti dall’ippocampo, inviati al computer, elaborati ed inviati nuovamente all’ippocampo, il tutto in pochissimo tempo.
I risultati sembrano dar ragione agli autori del lavoro: “Il nostro modello”, scrivono nel paper, “di stimolazione elettrica nell’ippocampo ha migliorato del 37%, in media, le performance in termini di memoria a breve termine e di memoria di lavoro”.
L’esperimento è stato poi ripetuto anche con la memoria a lungo termine, aumentando l’intervallo tra la memorizzazione e il test di richiamo dei ricordi. E anche in questo caso, dicono gli autori, i partecipanti hanno ottenuto punteggi del 35% più alti rispetto a quelli ottenuti nei test senza stimolazione: “Certamente ci aspettavamo dei miglioramenti”, hanno commentato gli autori a Wired.com, “dal momento che i test preliminari sugli animali (topi e scimmie) avevano dato buoni risultati. Ma non ci aspettavamo miglioramenti di questa portata”.
I limiti
“Si tratta di uno studio certamente molto interessante”, ci ha spiegato Carlo Miniussi, docente di neurofisiologia umana e direttore del Centro Mente/Cervello – Cimec all’università di Trento. “Però bisogna sottolineare che siamo davanti a una proof of concept, con tutti i suoi limiti, condotta su soli otto pazienti. Il sistema utilizzato è molto invasivo, perché per accedere all’ippocampo è necessario aprire la teca cranica: è per questo che sono stati utilizzati soggetti che già avevano un impianto neuronale per altre ragioni e non volontari sani. La parte di decodifica del segnale è molto interessante, anche se lo studio è stato condotto mostrando ai soggetti immagini astratte, i cui pattern di memorizzazione sono più facili da decodificare rispetto, per esempio, a quelli relativi a immagini o oggetti reali, inseriti in un contesto più vicino a quello della vita reale”. I risultati, continua lo scienziato, sono comunque molto incoraggianti, e l’approccio closed-loop potrebbe servire, un giorno, per fornire al cervello una sorta di allenamento che possa rinforzare il processo di memorizzazione in persone che soffrono di malattie come l’Alzheimer o altre demenze. “Ma probabilmente ci vorranno ancora diversi decenni prima di arrivare a pensare ad applicazioni cliniche: la tecnologia e la comprensione sono al momento ancora troppo acerbe”.