Cosa si intende esattamente per ‘ibernazione’ e come funziona?
“Si tratta di un processo naturale, popolarmente noto come letargo, che consente all’organismo di alcuni mammiferi di avvicinarsi a uno stato fisiologico molto vicino alla morte. Nel corpo di chi va in ibernazione si registra un notevole abbassamento della temperatura e una drastica riduzione di respirazione, battito cardiaco e metabolismo: in questo modo è possibile diminuire significativamente il consumo di energia e sopravvivere a lunghi periodi in cui ci sono poche risorse a disposizione. Un po’ quello che accade a un computer che, per risparmiare carica della batteria quando non è collegato alla rete elettrica, entra in stand-by. L’aspetto interessante è che si tratta probabilmente di una caratteristica ancestrale, quindi condivisa da tutti i mammiferi: riteniamo infatti che tutti i mammiferi siano dotati del gruppo di geni che predispone e consente di affrontare lo status di ibernazione. La sfida scientifica importante è quella di capire perché l’evoluzione abbia agito diversamente sulle specie, facendo mantenere questa capacità ad alcune di esse e facendola perdere ad altre.”
Cosa succede al cervello di chi va in ibernazione?
“La comprensione di quello che accade nel cervello durante l’ibernazione è uno degli aspetti più complessi e delicati dell’intero meccanismo. Sappiamo con certezza che l’ibernazione, dal punto di vista cerebrale, è molto diversa da stati come il coma, il sonno o l’anestesia, nei quali il cervello esprime una cosiddetta attività a onde lente: i neuroni della corteccia cerebrale, sostanzialmente, sincronizzano, ossia perdono la capacità di effettuare più operazioni diverse nello stesso momento. Durante lo stato di ibernazione, invece, i neuroni mantengono la desincronizzazione, ma il ritmo delle operazioni risulta molto rallentato: per questo motivo, riteniamo che gli animali che sono in ibernazione sperimentino un tempo soggettivo estremamente dilatato. Un’altra caratteristica che è stata osservata è che i neuroni tendono progressivamente a disconnettersi, per poi ricostruire al risveglio le connessioni interrotte e recuperare la plasticità precedente. E ancora: dal punto di vista biochimico, nel cervello degli animali ibernati si osserva la cosiddetta iperfosforilazione della proteina tau, un fenomeno che avviene anche nel cervello di chi soffre del morbo di Alzheimer. Tutte queste modificazioni ritornano poi rapidamente alla normalità poco dopo il risveglio.” Comprendere i meccanismi naturali che inducono all’ibernazione è un passaggio cruciale per tentare di riprodurre artificialmente il fenomeno. Come fanno gli animali a ‘capire’ che è il momento di andare in letargo? “Anche in questo caso, si tratta di un fenomeno molto complesso. Sostanzialmente, il cervello attiva i meccanismi che portano all’ibernazione quando si rende conto di trovarsi in una condizione di bilancio energetico negativo, ovvero quando l’organismo spende più energia di quanta ne abbia a disposizione. Indurre tale condizione in laboratorio, per animali ibernanti, è relativamente semplice: si può usare la cosiddetta strategia del work for food, in cui l’animale, per procurarsi il cibo, deve consumare un po’ più di energia rispetto a quella che riceve dal cibo stesso. Si può anche simulare l’arrivo dell’inverno, con alcune ore di digiuno in un ambiente leggermente freddo per innescare il torpore.”
Da diverso tempo lei e la sua équipe lavorate sull’induzione artificiale dell’ibernazione in non-ibernanti. Come si fa? E cosa avete scoperto?
“Siamo riusciti alcuni anni fa, sostanzialmente, a indurre uno stato di letargo artificiale nei ratti, animali che in natura non possiedono questa capacità. La nostra idea è stata di ingannare con un farmaco alcuni neuroni che si trovano in una specifica area cerebrale, il raphe pallidus. Questi neuroni controllano la quantità di energia che il nostro corpo consuma, e, inducendoli a farci consumare di meno, si innesca uno stato molto simile al letargo.” E gli esseri umani?
“Prima di pensare a una possibile transazione all’essere umano – che tra l’altro aprirebbe interrogativi etici ancora irrisolti – dobbiamo ancora comprendere molti aspetti dell’ibernazione. Primo fra tutti, capire quanto può durare questo status: teoricamente sembrerebbe che non ci siano limiti, ma non conosciamo eventuali effetti collaterali che potrebbero comparire dopo lunghi periodi di ibernazioni. Un altro aspetto delicato riguarda il risveglio: sappiamo ancora poco dei meccanismi che il cervello mette in atto per indurre l’uscita dal torpore. Solo dopo aver compreso questi e altri aspetti si potrà iniziare a prendere in considerazione l’applicazione della tecnica agli esseri umani.”
Perché lo facciamo? Quali sono le applicazioni?
“Le possibili applicazioni sono molteplici. In campo medico, anzitutto: l’ibernazione artificiale potrebbe essere utilizzata dai chirurghi durante gli interventi più complessi, per permettere ai diversi organi di sopravvivere anche in considerazioni di scarsa disponibilità di ossigeno. Oppure – ma è un’ipotesi al momento molto lontana – si potrebbe pensare di usare la tecnica nei pazienti in attesa di trapianti. Più realisticamente, lo studio dell’ibernazione potrà aiutare meglio a comprendere, tra le altre cose, i meccanismi alla base del morbo di Alzheimer – in virtù delle analogie descritte in precedenza –: sembra possibile ipotizzare un rallentamento della malattia in soggetti ibernati. La stessa ipotesi si può formulare, tra l’altro, anche per la crescita tumorale. Anche nel campo della ricerca spaziale le applicazioni sono molto promettenti: la possibilità di indurre l’ibernazione negli astronauti consentirebbe di affrontare lunghi viaggi spaziali aggirando il problema delle scorte di cibo e della schermatura dai raggi cosmici nocivi, da cui l’ibernazione sembra costituire una sorta di protezione.”