L’osteoporosi potrebbe accrescere malattie cardiache, specialmente nelle donne. Ad affermarlo è uno studio condotto in Corea del Sud dal Seul National University Bundang Hospital e dallo Yonsei University College of Medicine di Yongin.
Protagoniste della ricerca sono state oltre 12mila donne asiatiche di età compresa tra i 50 e gli 80 anni, la cui salute è stata monitorata per una media di 9 anni, effettuando esami per misurare la densità ossea, valutando il rischio cardiovascolare e tenendo conto di potenziali fattori di rischio come l’età, la pressione e il colesterolo alti, il fumo e le precedenti fratture. Nel periodo di osservazione, 468 soggetti (circa il 4%) hanno avuto un infarto o un ictus, mentre 237 (circa il 2%) sono deceduti. Secondo il team di ricerca la malattia sistemica dello scheletro, che aumenta fragilità delle ossa e predisposizione alle fratture, sarebbe correlata a un aumento del rischio di eventi cardiovascolari nei soggetti di sesso femminile del 79%. Nello specifico, l’assottigliamento delle ossa delle vertebre lombari, del femore e dell’anca sarebbe associato a un incremento dal 16% al 38% della probabilità di un attacco di cuore o ictus.
Dai risultati dello studio emerge che l’aggiunta del punteggio della densità minerale ossea o di una diagnosi clinica di osteoporosi o di osteopenia ai fattori di rischio noti prevede in maniera più efficace la possibilità di sviluppare una cardiopatia. Le pagine della rivista specializzata evidenziano inoltre come le persone con osteoporosi spesso soffrono anche di aterosclerosi, un indurimento e assottigliamento delle arterie, suggerendo che entrambe le condizioni potrebbero essere collegate. ”Non è chiaro esattamente come l’osteoporosi e l’aterosclerosi possano essere collegate, ma l’infiammazione a lungo termine e lo stress ossidativo cumulativo hanno ruoli chiave sia nella perdita ossea legata all’età che nell’aterosclerosi“, spiegano i ricercatori. “Forse è tempo di chiarire come la salute delle ossa influenzi l’apparato cardiocircolatorio e capire questo legame per scoprire nuovi trattamenti non solo per le donne, ma anche per gli uomini“, concludono Dexter Canoy e Kazem Rahimi del Nuffield Department of Women’s and Reproductive Health dell’Università di Oxford.