Il supplemento di vitamina D potrebbe migliorare l’attività di malattia e la fatigue in pazienti con deficit/insufficienza della stessa, affetti da lupus eritematoso sistemico. Ad affermarlo uno studio recentemente pubblicato su BMC Rheumatology.
Oltre al ruolo ormai noto della vitamina D nei processi legati all’omeostasi del calcio e del metabolismo osseo, l’ormone liposolubile è importante anche nella modulazione del sistema immunitario e dei processi infiammatori. Il suo deficit rappresenta una condizione di frequente riscontro nei pazienti con lupus, probabilmente come risultato della mancata esposizione al sole.
L’interesse dei ricercatori sul ruolo della vitamina D nella patogenesi del LES è nato con la scoperta della presenza dei recettori per questa vitamina (VDR) nelle cellule del sistema immunitario innato e adattativo (cellule dendritiche, macrofagi, cellule T e B). Ancora oggi, invece, non è nota l’influenza della vitamina D sul decorso e la prognosi di questa malattia.
L’obiettivo principale dello studio è stato quello di verificare l’esistenza di un possibile beneficio della supplementazione vitaminica D sul livello di fatigue, attività di malattia, qualità del sonno, disabilità funzionale e impiego di steroidi in pazienti con LES con deficit/insufficienza vitaminica. Poi stabilire se il potenziale potesse essere mediato dal suo effetto sull’espressione dei geni firma dell’interferone, i geni espressi unicamente nel sangue periferico dei pazienti con LES e che, stando ad alcune osservazioni, mostrano una correlazione positiva con l’attività di malattia. Una metanalisi ha identificato una dozzina di questi geni la cui espressione è indotta o regolata da interferone.
I ricercatori hanno raccolto, per tutti i pazienti reclutati con LES della Clinica Reumatologica Mater Dei di Maltainformazioni demografiche, anamnestiche, relative alla presenza di comoribiltà, al BMI, al punteggio SLEDAI-2K di attività di malattia e all’indice SDI (Systemic Lupus International Collaborating Clinics/American College of Rheumatology damage index) relativo al danno d’organo. Lo studio ha reclutato 31 pazienti tra il 2016 e il 2017 (13 pazienti con deficit di vitamina D, 18 con insufficienza vitaminica). L’età media dei partecipanti allo studio era pari a 47,9 anni, con una prevalenza di donne (90,3%). I livelli di vitamina D iniziali era pari a 21,7 ng/mL. La condizione di deficit vitaminico era definita da livelli sierici di 25(OH)D < 20 ng/mL, mentre quella di insufficienza vitaminica da livelli di 25(OH)D compresi tra 21 e 29 ng/mL.
Questi hanno completato alcuni questionari relativi alla fatigue (Fatigue Severity Scale= FSS), alla qualità del sonno (Pittsburgh Sleep Quality Index (PSQI), al dolore percepito su scala VAS, alla rilevazione di uno stato ansioso-depressivo (Hospital Anxiety and Depression Scale = HADS) e alla qualità della vita (the modified Health Assessment Questionnaire =mHAQ). Tra i test di laboratorio previsti nel protocollo dello studio vi erano la valutazione di calcemia, livelli sierici di 25(OH)D, proteine del complemente, conta ematica totale e funzione renale.
I soggetti con insufficienza vitaminica D sono stati sottoposti a supplementazione con vitamina D3 8.000 UI/die per 4 settimane (2.000 UI successivamente). I soggetti con deficit vitaminico D sono stati sottoposti, invece, a supplementazione con vitamina D3 8.000 UI/die per 8 settimane (2.000 UI successivamente).
Dopo 3 mesi, sono stati controllati i livelli sierici di 25(OH)D e i livelli di calcio per accertare il reale fabbisogno vitaminico.
A 6 mesi, l’83,9% dei partecipanti allo studio presentava livelli sufficienti di vitamina D, il 9,7% livelli insufficienti, mentre solo il 6,5% del campione mostrava un deficit franco di vitamina D.
A 12 mesi, invece, le percentuali di pazienti in base allo stato vitaminico sono state pari, rispettivamente, al 35,5%, al 54,8% e al 9,7%. Comunque, il 64,5% dei pazienti non ha aderito correttamente al regime di supplementazione vitaminica prescritto.
L’attività di malattia, valutata in base al punteggio SLEDAI-2K, è migliorata in modo significativo a 12 mesi. Inoltre, l’impiego di prednisone e la fatigue si sono ridotti dopo un anno di supplementazione. Considerando i pazienti dello studio con deficit franco iniziale di vitamina D, si è osservata una riduzione significativa del punteggio SLEDAI-2K sia a 6 sia a 12 mesi (p=0,03 e 0,046, rispettivamente).
A 6 mesi, l’espressione dei geni firma di interferone si è ridotta da 2,666 (SD= 1,703) a 2,225 (SD= 1,323). Non solo, alla riduzione del punteggio di espressione di questi geni si è associata una riduzione simultanea del punteggio SLEDAI-2K rispetto a quanto osservato nei pazienti che hanno sperimentato un aumento del punteggio di espressione dei geni firma di interferone (punteggio medio SLEDAI-2K= 4,67; p=0,015).
Nel commentare i risultati, i ricercatori hanno ammesso alcuni limiti metodologici del loro lavoro quali, in primis, l’assenza di un gruppo placebo. Per minimizzare l’effetto confondente dell’esposizione alla luce solare sui livelli basali di vitamina D, è stato evitato il reclutamento di pazienti durante i mesi estivi. Lo stesso criterio stagionale è stato adottato per ridurre l’effetto confondente rappresentato dalle temperature elevate sull’incremento della fatigue. Inoltre, la definizione di un periodo di supplementazione vitaminica di 12 mesi ha ridotto ulteriormente l’effetto confondente della stagionalità sulla fatigue.