Lungo il corso della storia, la teorizzazione del razzismo, si è spesso avvalsa del contributo della ricerca medico-scientifica. Con la nascita delle prime teorie medico-biologiche per giustificare l’inferiorità di un popolo rispetto ad un altro, scienza e pregiudizio razziale hanno stretto un rapporto decisivo. Gli esempi più nefasti di questa corrispondenza hanno trovato una sistematizzazione vera e propria solo quando gli stereotipi sono stati estesi, oltre che alla razza, anche alla cultura e alla fisiologia di un gruppo umano. Nel 2000 durante una conferenza stampa alla Casa Bianca, il direttore del National Human Genome Research Institute Francis Collins e il presidente della Celera Genomics, J. Craig Venter annunciano di aver completato la “bozza” completa del genoma umano. In quell’occasione i due genetisti affermano che a livello molecolare le differenze razziali non hanno alcuna base scientifica: il DNA umano è simile per il 99,9% dei casi. La ricerca ha finalmente rifiutato le basi scientifiche della discriminazione razziale? Non del tutto. Anche se l’acido desossiribonucleico degli uomini si assomiglia quasi al 100%, esiste uno 0,1% che fa la differenza. Il DNA è formato da 30.000 geni a loro volta composti da tre miliardi di basi (adenina, timina, citosina, guanina). Quando una base è diversa si verificano i casi di polimorfismo nucleotidico o SNP che cancellano l’uguaglianza tra un individuo e l’altro.
Confidando nelle nuove tecnologie informatiche, l’attenzione dei ricercatori si è spostata sullo 0,1% di differenza genetica. Poco tempo dopo la lettura della sequenza completa del genoma umano, l’IBM annunciò l’arrivo di un mega elaboratore in grado di compiere 7,3 milioni di calcoli al secondo sul DNA. Purtroppo, nel 1999, a seguito della dipartita di un paziente che era sottoposto a questo tipo di cure, la strada della personalizzazione si interruppe. Dopo questo incidente, le biotecnologie, si spostarono verso nuovi orizzonti di sviluppo. Uno di questi nuovi studi fu la genomica che si occupa dell’analisi comparativa del genoma di differenti organismi. Le prime scoperte a riguardo arrivano dall’Islanda. Il parlamento del Paese aveva da poco approvato una proposta di legge, nella quale dava a una società di biotecnologia la possibilità di utilizzare una banca dati genetica di tutta la popolazione dell’isola: all’epoca circa 270.000 persone. Le informazioni e i dati medici sulla popolazione conservati per più di un secolo, sono stati essenziali per la ricerca biotecnologia. Secondo la società, l’analisi di campioni di sangue e tessuti presenti in archivio associati a quelli più recenti hanno permesso di rintracciare i geni responsabili delle patologie che insidiano l’uomo. Per gli studiosi il punto di forza di questa ricerca risiede proprio nell’omogeneità della banca dati utilizzata. Gli islandesi si assomigliano geneticamente e ciò facilita il monitoraggio delle mutazioni all’origine delle malattie e di conseguenza lo studio di nuove terapie per combatterle.
Successivamente nel marzo del 2001 la Food and Drug Administration, l’organismo di controllo federale degli Stati Uniti su alimentazione e farmaci, stipula un accordo nel quale dà diritto a una società specializzata in biotecnologie, la NitroMed, di cominciare una ricerca sul primo “farmaco etnico” studiato appositamente per pazienti neri: il BiDil. La medicina è in grado di aumentare i livelli di ossido nitrico (un derivato dell’azoto) del sangue, utile per prevenire l’affaticamento cardiaco. Originariamente il medicinale venne concepito per una popolazione ben più vasta di quella nera. Ma gli studi clinici sull’efficacia del BiDil non dettero risultati positivi, tanto che l’FDA ne rifiutò l’approvazionenel 1997, perché l’applicazione poggiava su studi superati. Nonostante la sua bocciatura, la ricerca riesaminò i dati e dimostrò che i vecchi test il BiDil hanno avuto effetti positivi su una parte del campione di individui a cui era stato somministrato: 395 neri. I dati raccolti negli USA e riportati dalla rivista Science sono ancora più chiari. Da questi dati si evince che gli afro-americani, sono 10 volte più soggetti all’insufficienza epatica, 3 volte all’ipertrofia cardiaca e 2 volte al diabete. Questo spiega il perché dell’introduzione sul mercato farmacologico del medicinale da somministrare agli afro-americani. Ecco quindi arrivare la seconda valutazione dell’FDA. L’organismo federale americano stabilisce che potenzialmente il farmaco è in grado di evitare scompensi cardiaci nei soggetti di colore e dà il via libera al brevetto. Dal 2004 il BiDil può essere prescritto come rimedio benefico per gli americani neri che soffrono di cuore.
Negli Stati Uniti è usanza comune associare determinate patologie con il colore della pelle dell’individuo. Un esempio lampante è Sally Satel, psichiatra e docente all’Università di Yale, una studiosa che ha apertamente proclamato di fare “medicina razziale”, per migliorare l’iter diagnostico e il trattamento dei pazienti. Quando ha in cura un nero che soffre di depressione, gli prescrive dosi più deboli di Prozac, perché i dati clinici analizzati dalla ricerca farmacologia hanno dimostrato che numerosi afro-americani metabolizzano gli antidepressivi più lentamente rispetto a caucasici e asiatici. A soli 4 anni dall’annuncio che la razza non ha alcuna base scientifica, la medicina americana continua a somministrare farmaci in modo differenziato nonostante gli effetti benefici delle cure siano blandi. È il caso del Cozaar, un prodotto farmacologico utilizzato per diminuire la pressione arteriosa, che ha risolto solo pochi casi di ipertensione tra la popolazione nera. La ricerca tuttavia continua. Uno studio in corso sponsorizzato dal laboratorio AstraZeneca, per esempio, sta analizzando gli effetti di un farmaco anticolesterolo su cittadini americani provenienti dall’Asia del Sud, come gli indiani, considerati individui più sensibili alle malattie cardiovascolari legate al colesterolo. Quali le ragioni di tante ricerche? In campo medico i ricercatori hanno individuato geni che espongono l’organismo ad alcuni tipi di malattie e altri che vengono coinvolti nelle dinamiche del farmaco. Le risposte a una terapia farmacologia possono dipendere da uno qualsiasi di questi geni. Le unità ereditarie del cromosoma, inoltre, si distribuiscono in modo diverso tra le popolazioni. Si è riscontrato poi che un tipo di mutazione genetica avviene con più frequenza in certe zone geografiche e meno in altre. Purtroppo, non deteniamo ancora abbastanza test genetici per dimostrare tutto questo.